SEMIOTICA DELLA FOTOGRAFIA

SEMIOTICA DELLA FOTOGRAFIA

Semiotica della Fotografiajpg

Investigazioni teoriche e pratiche d'analisi 

recensione di G. Regnani

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Autore: Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero

Titolo: Semiotica della fotografia

Sottotitolo: Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi

Editore: Guaraldi s.r.l. Rimini

Copyright: 2006

ISBN: 88-8049-300-0

Pagine: 440

Prezzo: € 25,00

VERSIONE RIDOTTA

Ne La camera chiara Barthes ha affermato che “una foto è sempre invisibile: ciò che vediamo non è lei”. Ciò che (non) vediamo, ha aggiunto Krauss, è una fotografia che può invece divenire, piuttosto che il fine di un esame, un pretesto per parlare d’altro.
Potrebbe essere dunque utile disporre di strumenti idonei a meglio comprendere cosa veicoli, “dentro” come anche “fuori”, una fotografia, data la sua connaturata ambiguità.
Tra questi, lo è certamente la lettura di questo ponderoso volume. Dopo una prima parte dedicata ad un’ampia “geografia della ricerca” inerente riflessioni teoriche note sul medium, segue una sezione che, prendendo spunto dalla vocazione delle fotografie a dar luogo ad album, collezioni, archivi, è destinata ad alcune pratiche d’analisi (fotogiornalismo, teatro, turismo, arte).
Questo libro è dunque un’occasione preziosa per avere, sia sul fronte della speculazione teorica quanto su quello dell’analisi, un quadro più aggiornato della ricerca semiotica sulla fotografia unito ad una prospettiva metodologica per l’analisi di specifici corpus.
Uno dei possibili percorsi di lettura è quello consigliato ai lettori più vicini all’impostazione della semiotica strutturale, che possono partire dalla suaccennata “geografia” proseguendo la lettura con il successivo saggio, riservato ad un’archeologia del pensiero peirciano. La seconda parte del testo è indirizzata, come anticipato, ad una “spendibilità metodologica” delle tesi patrocinate. In questa prospettiva, la semiotica opera non astrattamente, ma nell’ambito di un determinato percorso culturale, tesa a generare “perizie” che favoriscano l’accessibilità ai testi per mezzo di schemi negoziati in funzione del conseguimento di una comparabilità delle decodificazioni delle forme testuali stesse. Tuttavia, lo spessore del testo lo mantiene lontano dalla proposta di “ricette” universali sempre valide per qualunque analisi.
A proposito di modelli, una delle insidie forse più temibili della fotografia è, indubbiamente, quella connessa con la persistenza di alcuni luoghi comuni.
Tra questi, vi è quello relativo all’idea che, grazie al suo “effetto di verità”, sia una sorta di codice cristallino senza alcuna enigmaticità e, insieme, una vera e propria specie di lingua franca, valida universalmente. Nella fotografia, infatti, la “finzione” sembra sempre talmente assente da far pensare che non esista alcuna distanza tra l’effettivo (s)oggetto originario e la sua riproduzione visuale. I segni fotografici sembrano perciò agire come frazioni di un mondo apparentemente reale che, eludendo la semiosi, possono essere percepiti come porzioni della realtà concreta.
Non è inoltre possibile pensare ad un unico sistema enunciazionale valido per qualsiasi fotografia, così come può essere altrettanto utile rammentare che sono le pratiche a contribuire alla costruzione del testo e, al suo interno, tracciare possibili percorsi interpretativi. Gli autori rilevano, infatti, come il soggetto interessato sia, tanto nella fase di enunciazione quanto in quella interpretativa, una figura molteplice immersa in una pluralità di tradizioni: linguistica e discorsiva, così come in pratiche e situazioni alle quali è incessantemente costretta a fare riferimento. Il senso, quindi, non è connaturato al testo, bensì alle pratiche interpretative. E’ la pratica, dunque, che indirizza la “lettura” di un testo, delimitandone i possibili confini interpretativi. Il contenuto di ciascuna fotografia è tale, conseguentemente, soltanto in una e per una specifica cultura, non potendo emergere ed affermarsi “in astratto” ma in specifici perimetri di senso e comunicazione. Senza dimenticare, ovviamente, l’immanente “flessibilità pragmatica” di ciascuna immagine fotografica, che fa sì che si adatti alle più variegate strategie comunicative.
Fra gli ambiti ove queste riflessioni possono trovare un’immediata applicabilità vi è certamente il fotogiornalismo. Un ambito esemplare, ove la fotografia è sovente utilizzata quale “prova” concreta di un accaduto e, al tempo stesso, paradigmatico esempio della sua incapacità di dimostrare nulla, prestandosi non di rado a possibili utilizzi arbitrari. La fotografia, astrattamente, non testimonia affatto qualcosa, semmai consente di non smentire il discorso che veicola grazie alla sua “compatibilità” con quanto è in essa raffigurato.
Il “riciclo” dell’immagine in un diverso contesto può, inoltre, condurre verso formule interpretative anche diametralmente opposte e distanti da quelle preesistenti.
La molteplicità delle espressioni della fotografia, siano esse indagate in una prospettiva di analisi semiotica di tradizione di tipo struttural-generativo piuttosto che testualista, concorrono comunque a delineare un percorso composito di “trasformazione” del reale agendo, in definitiva, in una prospettiva di complementarità, anziché di generale antagonismo. In questo processo di modificazione della “verità”, il patrimonio indiziario di una fotografia non viene di norma intaccato neanche in presenza di una falsificazione dell’interpretazione del suo “contenuto”. Infatti, pur potendosi eventualmente ricondurre tale mistificazione a fini ideologici è di norma difficile mettere in discussione l’autenticità apparente del “reale” raffigurato nell’immagine, per quanto il fare (fotografico) sia sempre implicato con plausibili strategie enunciazionali.
Infine si tenga anche presente che, come causticamente ha scritto Roche commentando Dubois: “Ciò che si fotografa è il fatto che si scatta una foto”.

Pierluigi Basso Fossali (1969) ha insegnato Semiotica presso lo IULM di Milano e Storia del cinema, Semiotica della fotografia e Semiotica della moda presso l’Università di Milano. Ha svolto attività di ricerca presso l’Università IUAV di Venezia ove è stato anche uno dei fondatori del LISaV. Ha scritto su riviste quali Versus, Semiotica, Rivista di Estetica, Visibile, Semiotiche. Tra i testi che ha pubblicato vi sono Confini nel cinema (Lindau 2003), Interpretazioni tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch (ETS 2006) Il dominio dell’arte (Meltemi 2002). Ha curato, nell’ambito della semiotica visiva, Modi dell’immagine (Meltemi 2002) e, in collaborazione, Eloquio del senso (Costa&Nolan 1999)

Maria Giulia Dondero (1975), dopo il dottorato di ricerca in Comunicazione e Nuove Tecnologie (Università IULM di Milano), ha proseguito l’attività di ricerca presso l’Università di Limoges e di Liegi. Ha insegnato Semiotica delle Arti all’Università di Bologna. Ha scritto su riviste quali Nouveaux Actes Sémiotiques, RS/SI, Comunication et Languages, Locus Solus, Voir, Visible. Ha pubblicato Sovraesposizione al sacro. Semiotica della fotografia tra documentazione e discorso religioso (Meltemi 2007).

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VERSIONE ESTESA

 Questo libro non è un manuale di semiotica della fotografia. Si tratta, piuttosto, di un testo che intende stimolare ulteriormente il dibattito relativo a questo peculiare medium tra i media. Lo fa partendo da un’accurata “geografia della ricerca”, proseguendo poi con l’esame di alcune pratiche di analisi del mezzo. Attraverso la suddetta “geografia” l’analisi è rivolta alle questioni poste dalla fotografia sia sul fronte teorico (indirizzate verso una verifica dell’esistenza di “una teoria della fotografia” in Peirce) sia su quello metodologico (l’articolato complesso di segni dello studioso americano diviene una sorta di cornice metodologica cui ricondurre diverse questioni emerse di recente in ambito semiotico) ove esaminare l’eventuale “spendibilità” delle tesi patrocinate.

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Nel celebre La camera chiara Roland Barthes ha affermato che “una foto è sempre invisibile: ciò che vediamo non è lei”. Quella che (non) vediamo, ha aggiunto Rosalind Krauss, è una fotografia che può invece divenire, piuttosto che il fine di un esame, un pretesto per parlare d’altro nella foresta di segni nella quale siamo immersi.

Per chi fa ricerca nel campo dei media, ma non solo, potrebbe dunque essere utile disporre di strumenti idonei a meglio comprendere cosa veicoli, “dentro” come anche “fuori”, una fotografia, data la sua connaturata ambiguità.

Tra questi, lo è certamente la lettura del ponderoso Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi, curato da Pierluigi Basso Fossali e Maria Giulia Dondero.

Il libro, chiariscono gli autori, non è un manuale di semiotica della fotografia, bensì un testo che ha l’intento di rianimare la discussione teorica inerente questo pervasivo e strategico mezzo di comunicazione visuale, innanzi tutto in ambito semiotico. A tal fine, la prima parte del testo è dedicata appunto ad un’ampia “geografia della ricerca” inerente riflessioni teoriche note sul medium cui segue una seconda sezione che, prendendo spunto dalla vocazione delle fotografie a dar luogo ad album, collezioni, archivi, è destinata ad alcune pratiche d’analisi che spaziano dal fotogiornalismo alla fotografia di teatro, dalle immagini turistiche a quelle inerenti alla pratica artistica. Più nel dettaglio, a seconda parte è composta di saggi dedicati: ad un approccio semiotico dello sguardo fotografico sull’Iran contemporaneo (Hamid-Reza Shaïri e Jacques Fontanille), ai colori di Place de la Republique (Anne Beyaert), alle relazioni tra fotografia e teatro e alle diverse configurazioni della fotografia turistica (Maria Giulia Dondero) e ad un nucleo precostituito di opere di Denis Roche inerente l’eclissi rappresentazionale di una coppia (Pierluigi Basso Fossali).

Per chi si occupa di media è quindi un’occasione preziosa per avere, sia sul fronte della speculazione teorica quanto su quello dell’analisi di opere fotografiche, un quadro più aggiornato della ricerca semiotica sulla fotografia e, insieme, una prospettiva metodologica ed esempi di analisi di specifici corpus fotografici.

Il testo comprende anche contributi rivenienti da L’image précaire di Jean-Marie Schaeffer, recentemente tradotto in italiano (cfr., in questo blog o su “NIM.libri”, la relativa recensione).

Il libro, suggeriscono gli autori, può essere letto in due modi distinti. Il primo, consigliato ai lettori più vicini all’impostazione della semiotica strutturale, è quello di partire dalla suaccennata “geografia”, curata da Maria Giulia Dondero, che prende il via da un’analisi di tipo testualista, cui segue un secondo saggio dedicato ad un’archeologia del pensiero peirciano, ad opera di Pierluigi Basso Fossali, che propone questioni poste dal medium sia sul fronte teorico sia su quello metodologico. Per un verso, infatti, si va nella direzione di una verifica dell’esistenza di “una teoria della fotografia” in Peirce, per l’altro, si prova ad utilizzare la complessa tipologia dei segni dello studioso americano come una complessiva cornice metodologica entro la quale collocare tutte le questioni emerse recentemente in ambito semiotico.

La seconda parte del testo, pur prestandosi a letture più libere è indirizzata, come anticipato, ad una “spendibilità metodologica” delle tesi patrocinate. In questa prospettiva, la semiotica, aggiungono gli autori, operando non astrattamente, ma nell’ambito di un determinato percorso culturale, è tesa a generare “perizie” che aiutino a rendere maggiormente accessibili i testi per mezzo di schemi negoziati in funzione del conseguimento di una comparabilità delle decodificazioni delle forme testuali stesse.

Ciò detto, gli autori precisano che dalla lettura di questo testo non si otterranno affatto delle “ricette” universali che possano essere utilizzate per qualsiasi analisi testuale. Si correrebbe, infatti, il rischio, nella migliore delle ipotesi, di realizzare soltanto generici quadri descrittivi se non, addirittura, di rischiare forme di vero e proprio stallo totale. Gli strumenti della semiotica, quindi, vanno dunque usati con la consapevolezza della peculiarità di ciascun testo e, tralasciando modelli validi per tutte le occasioni, della preferenza di una soluzione interpretativa tra le diverse eventualmente possibili.

A proposito di modelli, una delle insidie forse più temibili della fotografia è, innegabilmente, quella connessa con la persistenza di alcuni luoghi comuni.

Tra questi, quello relativo all’idea che essa, grazie al suo “effetto di verità” (Shaïri, Fontanille), sia di una sorta di codice cristallino senza alcuna enigmaticità e, insieme, una vera e propria specie di lingua franca, valida universalmente oltre che indifferente ai diversi ambiti culturali nei quali è immersa. La fotografia, infatti, a differenza di altre arti che di norma ricorrono alla mediazione di varie formule più o meno convenzionali per validare un’impressione di realtà, sembra sfuggire alla semiosi presentandosi piuttosto come un ready-made, sebbene anch’esso, nel momento stesso in cui è fatto oggetto di ostensione, di fatto viene risemantizzato.

Nella fotografia, dunque, la “finzione” sembra sempre talmente assente da far pensare che non esista alcuna distanza tra l’effettivo (s)oggetto originario e la sua riproduzione visuale. I segni fotografici sembrano perciò agire come frazioni di un mondo apparentemente reale che, eludendo la semiosi, possono essere percepiti come porzioni della realtà concreta. Ma per quanto la fotografia, come si rammenta nel testo citando Floch, può tecnicamente essere vista come un’impronta, è attraverso le forme che essa assume che emergono le relative dotazioni di significato. Tale corredo prende corpo sotto forma di “prassi enunciazionali”, attraverso le quali si delineano quattro fondamentali costruzioni testuali: referenziale, obliqua, mitica e, infine, sostanziale, vero e proprio “grado zero” della scrittura fotografica.

Se non è possibile pensare ad un unico sistema enunciazionale valido per qualsiasi fotografia, è altrettanto utile rammentare che sono le pratiche a contribuire alla costruzione del testo e, al suo interno, tracciare possibili percorsi interpretativi. In questa ottica, possono evidentemente emergere prospettive d’analisi differenti, in relazione, oltre che all’osservatore considerato, ai vincoli socioculturali connessi con le pratiche di cui è detto. In linea con quanto afferma Rastier richiamato nel testo, gli autori rilevano come il soggetto considerato sia, tanto nella fase di enunciazione quanto in quella interpretativa, una figura molteplice immersa in una pluralità di tradizioni: linguistica e discorsiva, così come in pratiche e situazioni alle quali è incessantemente costretta a fare riferimento. Il senso, si ricorda quindi nel libro, non è connaturato al testo, bensì alle pratiche interpretative. E’ la pratica, dunque, che indirizza la “lettura” di un testo, delimitandone i possibili confini interpretativi. Il contenuto di ciascuna fotografia è tale, conseguentemente, soltanto in una e per una specifica cultura, non potendo emergere ed affermarsi “in astratto” ma in specifici perimetri di senso e comunicazione. Senza dimenticarne, ovviamente, l’immanente “flessibilità pragmatica” di ciascuna immagine fotografica, che fa sì che essa si adatti alle più variegate strategie comunicative.

Fra gli ambiti ove queste riflessioni possono trovare un’immediata applicabilità vi è certamente il fotogiornalismo. Il fotogiornalismo, come sa bene chi si occupa di media, è un ambito esemplare nel quale la fotografia è sovente utilizzata quale “prova” concreta di un accaduto e, al tempo stesso, paradigmatico esempio della sua incapacità di dimostrare nulla, prestandosi non di rado a possibili utilizzi arbitrari. La fotografia, astrattamente, non testimonia affatto qualcosa, semmai, consente di non smentire il discorso che veicola risultando questo “compatibile” con quanto è in essa raffigurato.

Il contenuto simbolico dell’immagine fotografica non è, in ogni caso, immune anche da possibili alterazioni spazio-temporali. Il “riciclo” dell’immagine in un diverso contesto può, infatti, condurre verso formule interpretative anche diametralmente opposte e distanti da quelle preesistenti.

La delocalizzazione e la despazializzazione di un’immagine fotografica rinvia inoltre alle note riflessioni benjaminiane inerenti l’aura dell’opera, ovvero il discorso connesso con la sua autenticità nell’era della riproducibilità tecnica. A ben vedere ci si trova di fronte, ancora una volta, ai riflessi connessi con le pratiche d’uso, siano esse produttive o interpretative. La molteplicità delle espressioni della fotografia, siano esse indagate in una prospettiva di analisi semiotica di tradizione di tipo struttural-generativo piuttosto che testualista, concorrono comunque a delineare un percorso composito di “trasformazione” del reale agendo, in definitiva, in una prospettiva di complementarità, anziché di generale antagonismo. In questo processo di modificazione della “verità”, come si ricorda nella parte conclusiva del secondo saggio contenuto nel testo, il patrimonio indiziario di una fotografia non viene di norma intaccato neanche in presenza di una falsificazione dell’interpretazione del “contenuto” della stessa. Infatti, pur potendosi eventualmente ricondurre tale mistificazione a fini ideologici è di norma difficile mettere in discussione l’autenticità apparente del “reale” raffigurato nell’immagine, per quanto il fare (fotografico) sia sempre implicato con plausibili strategie enunciazionali.

Occorre infine aver anche presente che, come causticamente ha scritto Denis Roche commentando il noto L'acte photographique di Philippe Dubois pubblicato nel 1983: “Ciò che si fotografa è il fatto che si scatta una foto”.

 

Pierluigi Basso Fossali (1969) ha insegnato Semiotica presso lo IULM di Milano e Storia del cinema, Semiotica della fotografia e Semiotica della moda presso l’Università di Milano. Ha svolto attività di ricerca presso l’Università IUAV di Venezia ove è stato anche uno dei fondatori del LISaV. Ha scritto su riviste quali Versus, Semiotica, Rivista di Estetica, Visibile, Semiotiche. Tra i testi che ha pubblicato vi sono Confini nel cinema (Lindau 2003), Interpretazioni tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch (ETS 2006) Il dominio dell’arte (Meltemi 2002). Ha curato, nell’ambito della semiotica visiva, Modi dell’immagine (Meltemi 2002) e, in collaborazione, Eloquio del senso (Costa&Nolan 1999)

 

Maria Giulia Dondero (1975), dopo il dottorato di ricerca in Comunicazione e Nuove Tecnologie (Università IULM di Milano), ha proseguito l’attività di ricerca presso l’Università di Limoges e di Liegi. Ha insegnato Semiotica delle Arti all’Università di Bologna. Ha scritto su riviste quali Nouveaux Actes Sémiotiques, RS/SI, Comunication et Languages, Locus Solus, Voir, Visible. Ha pubblicato Sovraesposizione al sacro. Semiotica della fotografia tra documentazione e discorso religioso (Meltemi 2007).

 Roma, 28 novembre 2008

 Scheda bibliografica

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Autore: Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero

Titolo: Semiotica della fotografia

Sottotitolo: Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi

Editore: Guaraldi s.r.l. Rimini

Copyright: 2006

ISBN: 88-8049-300-0

Pagine: 440

Prezzo: € 25,00

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