I MONDI INFINITI di LUIGI GHIRRI La visione della fotografia del grande fotografo emiliano di Ennery Taramelli
Mondi infiniti
Viaggio nell'infinito "pensare per immagini" del grande autore italiano scomparso
di Gerardo Regnani
Roma, 04/02/2006
Nel 1992
moriva Luigi Ghirri, una delle figure di spicco del panorama italiano della
fotografica degli ultimi decenni del Novecento e non solo. Le sue opere, il suo
pensiero, nonostante il passare del tempo continuano ad essere un punto di
riferimento, soprattutto teorico, sulle possibili espressioni del mezzo
fotografico, in particolare in un momento di transizione quale è quello
attuale. Il testo che segue intende ripercorrere, sulla scorta dell'analisi
contenuta nel coinvolgente libro intitolato "Mondi infiniti di Luigi
Ghirri", scritto dallo storico e critico d'arte Ennery Taramelli, alcuni
passaggi della riflessione ghirriana, sia per comprendere meglio la poetica
dell'autore scomparso sia per rileggere la sua particolare "visione"
di quell'universo chiamato Fotografia.
Un altro significativo esempio del rinnovato interesse che anima il recente
dibattito sulla fotografia è stata la pubblicazione per le Edizioni Diabasis di
Reggio Emilia, nel settembre del 2005, del testo intitolato Mondi
infiniti di Luigi Ghirri. L'autore di questo appassionante testo (al quale,
comunque, rinviamo per una lettura più estesa) è Ennery Taramelli, uno storico
e critico d'arte dedito alla saggistica a indirizzo fenomenologico ed
ermeneutico nell'ambito delle arti visive, docente di Storia dell'Arte
all'Accademia di Belle Arti di Napoli. Il libro, dedicato all'opera e alla
poetica di Luigi Ghirri (1943-1992), ripercorre l'intenso percorso del
grande fotografo italiano tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento. Un
cammino, quello ghirriano, caratterizzato non solo dalle tante opere
fotografiche prodotte ma anche da una nutrita serie di scritti rivolti sia ad
una attenta esplorazione del mezzo espressivo sia ad un'autoanalisi della
propria linea interpretativa del mondo, attuate, entrambe, attraverso un vero e
proprio "pensare per immagini". Il suo "viaggio" Ghirri lo
ha realizzato coniugando insieme le istanze della dimensione personale con
quelle di una "esperienza visionaria" che ha volutamente attinto
anche dal ricco e variegato bagaglio simbolico dell'immaginario collettivo.
Le immagini e gli scritti sono, comunque, soltanto una parte della
"testimonianza" di rilievo - un discorso a parte meriterebbe, ad
esempio, anche l'impegno come editore - del suo intenso percorso di vita; un
"viaggio" che potremmo immaginare, facendo una cosa probabilmente a
lui gradita, come un escursione in un grande atlante immaginario.
Aprendo questa mappa ideale, l'autore del libro, Ennery Taramelli, ci ricorda
innanzitutto, usando le parole di Victor Hugo (1802-1885), che un poeta è, in
fondo, un universo rinchiuso in un essere umano; espressione sicuramente adatta
alla figura di Ghirri e alla sua idea di fotografia.
Ma quella ghirriana, oltre che poesia, è talvolta anche una riflessione del
mezzo su se stesso, come è stato nel caso delle considerazioni sulla prima
immagine della Terra scattata dallo spazio, da lui considerata una delle più
rilevanti metafore della rappresentazione visuale mai prodotte dal medium fotografico:
tangibilmente, la sua più efficace metafotografia. Così descrisse
l'evento:
"Nel 1969, viene pubblicata da tutti i giornali la fotografia scattata
dalla navicella spaziale in viaggio per la Luna; questa era la prima fotografia
del Mondo. L'immagine rincorsa per secoli dall'uomo si presentava al nostro
sguardo contenendo contemporaneamente tutte le immagini precedenti, incomplete,
tutti i libri scritti, tutti i segni, decifrati o non. Non era soltanto
l'immagine del mondo: graffiti, affreschi, dipinti, scritture, fotografie, libri,
film. Contemporaneamente la rappresentazione del mondo e tutte le
rappresentazioni del mondo in una volta sola. Eppure questo sguardo totale,
questo ridescrivere tutto, annullava ancora una volta la possibilità di
tradurre il geroglifico-totale. Il potere di contenere tutto spariva davanti
all'impossibilità di vedere tutto in una sola volta. L'evento e la sua
rappresentazione, vedere ed essere contenuti si ripresentava di nuovo all'uomo,
come non sufficiente per sciogliere gli interrogativi di sempre. Questa
possibilità di duplicazione totale lasciava però intravedere la possibilità di
decifrazione del geroglifico; avevamo i due poli del dubbio e del mistero
secolare, l'immagine dell'atomo e l'immagine del mondo, finalmente una di
fronte all'altra. Lo spazio tra l'infinitamente piccolo e l'infinitamente
grande era riempito dall'infinitamente complesso: l'uomo e la sua vita, la
natura. L'esigenza di una informazione o conoscenza nasce dunque tra questi due
estremi; oscillando dal microscopio al telescopio, per potere tradurre e
interpretare il reale o geroglifico." (Costantini, Chiaramonte 1997)
La fotografia del globo terreste, sottolineava dunque Ghirri, al di là della
novità (estetica) di quella visione racchiudeva dunque in se, simbolicamente,
anche tutte le altre immagini del mondo medesimo, così come tutti gli
altri segni del nostro pianeta; proprio tutti, persino quelli
ancora non decodificati. Si tratta di quello che Ghirri, fondandolo su un metaforico
sguardo dall'esterno, ha immaginato come un complesso "geroglifico"
nel quale si addensa, in un incessante e talvolta inestricabile groviglio,
l'eterogenea totalità della cultura terrestre. Tale simulacro del mondo visto
dalle profondità dello spazio evoca, inoltre, la molteplicità di un
"aleph" borgesiano; in quell'immaginario luogo letterario -
diversamente dal reale - la varietà terrena, oltre a risultare visibile da ogni
possibile angolazione, può incrociarsi tranquillamente senza mai "confondersi".
Questo aspetto assume oggi una rilevanza ancor maggiore, soprattutto se
correlato alla intricata dimensione contemporanea della cosiddetta
"civiltà dell'immagine" ove, paradossalmente, senza un'adeguata arte
della visione è divenuto gradualmente più difficile poter realmente vedere
meglio il mondo. Tra le altre metafore idonee a schematizzare questo processo
di analisi visuale, così come aveva efficacemente ricordato anche Paul-Ambroise
Toussaint Valéry (1871-1945) nel suo celebre Discorso per il Centenario
della fotografia tenuto alla Sorbona il 7 gennaio del 1939, un posto
importante è da attribuire all'eterno mito della caverna di
Platone, da considerarsi - andando oltre l'idea di simbolica camera
oscura (tradizionale) - nella sua dimensione di efficace ed
imprescindibile strumento d'indagine del reale. Anche per tale ragione, tutto
l'impegno ghirriano, in fondo, è condensabile in una sorta di aristotelico
pensare attraverso le immagini, all'interno del quale la riflessione
dell'autore non è semplicemente limitata a ciò che è apparentemente tangibile
attraverso la mera visione delle immagini, dando vita, piuttosto, ad una
meditazione intima che si nutre costantemente della propria forza immaginativa.
Il compito della fotografia oltre a non limitarsi alla semplice ripresa ottica,
assume, per di più, la connotazione di un onere di carattere etico, soprattutto
se posto in relazione con l'anestetizzante e desensibilizzante aumento della
velocità della visione caratteristica della nostra epoca.
La tv, tra i media più diffusi, è certamente un
caso esemplare al riguardo.
La fotografia, attraverso la "pausa" che la contraddistingue da
sempre, deve invece essere in grado di poter dire ancora qualcosa a
questo pianeta letteralmente sopraffatto da miriadi di immagini che non
sembrano essere più in grado di significare concretamente qualcosa, divenendo
progressivamente dei segni assurdi, incapaci persino di lasciare una
"traccia" che veicoli davvero alcunché di significativo; semmai tutto
l'opposto.
L'opera di Ghirri ha quindi tentato, non escludendo il suo bagaglio di ricordi
personali, anche di delineare dei veri e propri percorsi immaginari attraverso
tutta una serie di mappe ideali fondate su due popolari "bibbie
laiche": i già citati atlanti e gli album di famiglia.
Nell'ottica di un'intensa poetica del viaggio, egli ha realizzato non solo
delle semplici fotografie, ma autentiche mappe spirituali ove l'eliminazione di
tutto quanto si trova "al di fuori" dell'immagine è - in una costante
azione di rimando - altrettanto importante rispetto a ciò che si trova
"all'interno" della fotografia stessa. In questo esercizio selettivo
è sottintesa, peraltro, la fondamentale consapevolezza dell'impossibilità di
delimitare e rappresentare concretamente in una fotografia tutto il reale nella
sua globalità, potendosi soltanto ottenere, di fatto, la selezione di una
eventuale frazione della realtà, talora soggetta anche a "letture"
fraudolente e di parte.
Nella prospettiva di intermediaria, l'immagine diviene perciò un medium,
ovvero l'entità tramite tra quel che ci appare manifesto e la dimensione
impercettibile - esterna, ma mai completamente estranea - cui, comunque, essa
sempre rinvia.
Ma ogni immagine, al di là dell'apparente familiarità del "contenuto"
di superficie, può comunque rinviarci ad una rappresentazione mentale del
fantastico, così come lo ha concepito Ghirri sulla base della lettura degli
scritti di Roger Callois (1913-1978). Nell'universo narrativo cui si fa
riferimento, il fiabesco si accosta alla realtà senza provocare
particolari traumi, a differenza del fantastico che,
all'opposto, rivoluziona scandalosamente il reale assumendo le forme di una
"apparizione" sconvolgente. Questa diviene il mezzo fondamentale per
irrompere nella quieta rappresentazione di una qualsiasi dimensione del
quotidiano ove tutto ciò che è arcano sembra essere proibito, rianimandosi,
poi, di una nuova aura di enigmaticità. La fotografia, di fronte al riapparire
di un panorama imperscrutabile, assume il ruolo di miracoloso strumento di conoscenza
in un cosmo talvolta impenetrabile, divenendo così un rassicurante e metaforico
"doppio" del mondo - tangibile o intellettuale - che è fuori di noi.
Questo ridare vita alle cose, anche creando un reale differente, contribuisce
inoltre a consolidare l'idea di un mezzo capace di riassumere in sé, in linea
con la concezione originaria dell'invenzione ottica, una sorta di "grado
zero della visione".
L'intero "viaggio" ghirriano è attraversato, però, anche dalla
preoccupazione che, non potendosi evitare un'esplorazione del mondo esterno pur
sapendo che potremmo scoprire cose che già conosciamo, tutta lo nostra ricerca
si traduca, in definitiva, in una specie di visione neutralizzante, un circolo
vizioso, insomma. Tra gli esempi letterari di questa emblematica rincorsa
improduttiva Ghirri ha indicato, citando ancora a Jorge Louis Borges
(1899-1986), la significativa narrazione della vicenda dei cartografi di un
impero fantastico. In tale ipotetico regno la cartografia, avendo raggiunto
elevatissimi livelli di finitezza ed estensione, giunse, per soddisfare
ulteriori e pressanti richieste, alla realizzazione di una carta del territorio
che aveva la scala della superficie stessa del reame. Quella carta divenne, in
tal modo, uno strumento praticamente inutile, venendo successivamente
abbandonata all'implacabilità del tempo. Di quell'opera sterminata, prosegue il
racconto, restano soltanto delle "sparse rovine".
Le fotografie, proponendoci possibili brandelli del mondo, assumono la funzione
di simboliche cartografie, veri e propri "Paesaggi di cartone", che
ci approssimano al confine tra il noto e l'ignoto. Siffatta ricognizione, nella
(in)consapevolezza di quella parte del mondo esclusa dall'inquadratura, tende
ad assumere sempre una caratteristica surreale, a partire dal mutamento della
scala di riproduzione del presunto reale e sino alla accumulo di piani e
prospettive di significato talvolta anche radicalmente differenti tra di loro.
In questo suo cammino, il viaggio ideale di Ghirri, quello che comprende ed esplode
in sé tutta la poetica del viaggiare, è sempre quello consentitoci
dall'immaginazione - al pari di altrettanti Gulliver nel regno di Lilliput -
grazie ad un comune atlante, il luogo in cui tutti i tragitti possibili, ma non
solo quelli, risultano già tracciati. La fotografia, di fronte alla scomparsa
dell'esperienza diretta indotta dall'insieme dei segni contenuti negli atlanti
ci offre, all'opposto, l'alternativa di una peculiare dimensione virtuale
dell'ambiente reale.
Ma l'analisi dei percorsi ghirriani porta Taramelli anche a sottolineare il
potenziale pericolo che l'immagine fotografica corre nell'era del digitale,
rischiando di essere posta ai margini, se non proprio al di fuori, del mondo
della comunicazione contemporanea. Aspetto, questo, tanto più rilevante se si
considera la funzione di conoscenza che la fotografia ha costantemente assunto
nel tempo e, conseguentemente, cosa significherebbe la sua eventuale esclusione
dal panorama dei "saperi" nel quadro storico contingente. Nel vortice
turbinoso provocato dalla velocizzazione della visione, occorre dunque, per
evitare che tutto si riduca a quello che Ghirri definisce uno smisurato
"paesaggio di passaggio" che si torni a pensare, piuttosto che ad
immagini fotografiche dedite alla ricerca, ad una vera e propria ricerca della
fotografia stessa. In proposito, la lucida analisi del fotografo italiano
scomparso, ha evidenziato come tutto il genere delle immagini creative sia
stato costretto ad una non brillante fase di autosegregazione, concretizzatasi
in una certa dissoluzione perfino delle relazioni con il contesto sociale di
riferimento. Anche talune esasperazioni espressive così come la
standardizzazione dell'estro, si legge altrove, possono essere nocive e
favorire una specie di incapacità di comunicare con le immagini, creando, in
tal modo, un potenziale varco verso una narcosi della visione.
Ecco, dunque, che il compito dei fotografi è pure quello di riallacciare le
redini talvolta spezzate del "loro" discorso con la società,
piuttosto che rischiare di cadere nel dimenticatoio e finire eventualmente
nascosti in un archivio polveroso qualunque.
Il "pensare per immagini" di Ghirri resta legato, in ogni caso, alla
possibilità di realizzare una rappresentazione che assuma, di fatto, le forme
di un racconto, ove "l'ars combinatoria" delle immagini stesse
assuma senso all'interno di una concatenazione delle scene proposte in
relazione ad uno specifico percorso narrativo.
Nel realizzare questo intento progettuale, Ghirri è stato sempre consapevole
del fatto che fotografare non vuol dire duplicare automaticamente il reale,
benché il sottile fascino della fotografia risieda proprio in questa sua
connaturata capacità di evocare costantemente la realtà, quale che essa in
effetti poi sia.