UNA "FOTOGRAFIA" DEI MANESKIN('S PHOTOGRAPHY)
Una “fotografia” dei
Måneskin
Dal “fuori di testa” al “fuori” del senso
di G. Regnani
Anonimo, Måneskin, 2021 (elab. G. Regnani)
Abstract*
L’articolo esplora il ruolo del corpo e dell’immagine fotografica nella rappresentazione culturale dei Måneskin, considerati sia “corpi” estetici sia “oggetti culturali” nel contesto mediatico contemporaneo. Analizzando le fotografie della band, l’autore evidenzia come queste possano sembrare al contempo rivelatrici e vuote di significato, in un paradosso visivo che sfida le interpretazioni convenzionali. Attraverso una lettura che intreccia estetica e filosofia, si suggerisce che il senso delle immagini va ricercato oltre la superficie visibile, in uno spazio di interpretazione che coinvolge il corpo culturale e sociale dei Måneskin. La loro presenza fotografica è analizzata come una “fotogenia” strategica, attraverso cui la band non solo esprime bellezza e giovinezza, ma si fa anche portavoce di un messaggio sociale e ideologico di libertà e ribellione. Le immagini dei Måneskin, quindi, riflettono un “corpo” collettivo e simbolico, capace di trasformare il reale attraverso gesti, musica e movimento che evocano una dimensione narrativa e politica.
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Anche per i Måneskin - tra i “corpi” e, insieme, gli “oggetti culturali” più cool del momento - il corpo è probabilmente “lo” strumento espressivo, non solo naturale, per eccellenza. Ne sono un’evidente dimostrazione le tante fotografie che mostrano i componenti di questa giovane rock band, poco più che esordiente e già all’apice del successo, nelle pose più svariate.
Ma, in realtà, cosa ci mostrano davvero quelle immagini?
Apparentemente tutto, ma, in realtà, forse nulla.
Tutto e niente, insieme.
Se così fosse, di fatto, saremmo di fronte ad una sorta di paradosso.
Un paradosso che dipende, in effetti, da cosa "leggiamo" dentro quelle fotografie mentre le guardiamo.
Ma, parafrasando il testo della hit che li ha portati a vincere nel 2021 sia il Festival di Sanremo sia l’Eurovision Song Contest, nel tentativo di comprendere appieno quelle immagini, non rischieremmo, forse, di andare anche noi... “fuori di testa”?
Speriamo di no, ovviamente, perché, come anticipato nel sottotitolo e come riaccenneremo ulteriormente in seguito - seguendo un2a sorta di percorso interpretativo - giungeremo alla conclusione che quello che, almeno “geograficamente”, è davvero… fuori in quelle fotografie, in verità, è “soltanto” il senso.
Il loro senso, il loro significato.
Uno sguardo tecnico rivolto, in particolare, ad una di quelle immagini scelta a caso cercando di descriverne le modalità di acquisizione di significato. Un capitale di valori, ideali, etc., di importanza e di visibilità talora persino... strategica, (anche) per i Måneskin.
Ma non solo, come accenneremo più avanti anche a proposito del fenomeno del “ritrarsi” della Fotografia e delle relazioni di questo strategico medium tra i media con la Morte.
Riprendendo precedenti riflessioni, in questo testo si proverà quindi a definire meglio da dove viene e come si alimenta di senso dall’esterno la dimensione significante interna all’immagine. Un transfert funzionale per decodificarle, “dargli” un senso, voce e parola - seppure tramite un “ventriloquo” - e, non ultimo, andando anche oltre, per “(ri)dargli", all’occorrenza, persino la... vita!
Ed è proprio questo "meccanismo" che permette anche a questa fotografia - così come a qualsiasi immagine, del resto, pur essendo tutte, da un punto di vista tecnico, congenitamente anonime e "mute" - di superare il paradosso del quale si è accennato. E, superandolo, di “parlarci”. E non poco, “dicendoci”, piuttosto, tante, moltissime cose, ad esempio, su tutto il mondo che riguarda e circonda i Måneskin.
Sino ad arrivare, come già accennato e come ridiremo anche più avanti, persino a salvargli la “vita”!
Questa istantanea ci potrebbe quindi “dire” qualcosa, ad esempio, a proposito del percorso dei Måneskin all’interno della macchina produttiva dell’industria culturale non solo locale, che propone con successo al momento crescente questi musicisti ai diversi target internazionali di riferimento, in una miscela variegata di rimandi che oscillano, incessantemente, tra gli estremi del mito e della merce.
Una bella “merce”, sembrerebbe!
Almeno da quel che, sinora, sembra apparire. Per lo meno in superficie.
E, comprendendo idealmente, in questo ampio quanto immaginario campionario fotografico promozionale, anche l’immagine, del tutto informale e più volte rielaborata, che accompagna queste righe.
Bellezza, dunque.
Con l’attrattiva di un essere bello, che ha tutte le qualità di ciò che è ritenuto appunto tale in questo momento storico o che tale credono sia i sensi e lo spirito. Una dote non così tanto comune, che certo non pare manchi affatto a questo quartetto rock.
Una specie di sinergica armonia visibile, la loro, come la definirebbe forse U. Foscolo. Un’armonia che “buca” lo schermo, come si usa dire, e, penetrando oltre lo sguardo, si insedia nel cuore del pubblico.
Quella stessa Bellezza comunemente intesa, come ha ricordato A. Abruzzese, come uno degli “interessi abstracti dell’uomo”.
Una Bellezza che può anche essere figlia di una fotogènia propria o “indotta” nel (s)oggetto osservato e/o ritratto.
Fotogènia, che, nel caso dei Måneskin, gioca, evidentemente, a loro favore un ruolo non secondario.
Ne risulta, peraltro, una Bellezza a più dimensioni, tra le quali, non ultima, si può forse segnalare quella del corpo culturale che incarnano - anch’essa un’immagine, in fondo: una sorta di “fotografia” (anche sonora) - condensato in quell’emblematica quanto fortunata sintesi espressiva del “siamo fuori di testa” che, verosimilmente, ha rappresentato il trampolino di lancio per il vero salto di qualità della rock band verso il successo mondiale di questi giovani musicisti romani.
Un corpo, quello dei Måneskin, che, dati questi primi spunti, potrebbe interessare anche come corpo sociale. Un (s)oggetto di sicuro interesse, per la sua dimensione socializzata, innanzitutto per le c.d. Scienze sociali. In questa prospettiva, il corpo dei Måneskin, differentemente da quello di un animale che lo usa, seguendo l’istinto, sostanzialmente per i suoi bisogni più immediati (nutrirsi, riprodursi, etc.), ha delle finalità di norma più “alte”. I Måneskin, in effetti, usano il loro corpo e la loro musica per trascendere la “realtà” e costruire, così, per sé e per i propri fan, un mondo nuovo.
Un mondo nuovo, del tutto o almeno in parte diverso da quello attuale.
Il corpo, per questo gruppo rock nostrano, non è, dunque, semplicemente qualcosa che esiste al mondo, ma un’entità che già solo con la sua presenza, contribuisce a modificare il “reale” o, quanto meno, a reinterpretarlo e, quindi, ridefinirlo. Rimodulandolo anche sotto la spinta delle correnti sociali che, comunque, rappresentano. Un corpo poliedrico e, insieme, una specie di arcana porta “sensibile”, un varco “trasparente” e… attraversabile. Una sorta di pellicola fotografica, capace anche di registrare e di “riflettere” tutto quanto la attraversa.
Segni e tracce, di un corpo culturale: “il” corpo per antonomasia, secondo un certo orientamento, dei nostri tempi.
Un corpo comunque emblematico, quello dei Måneskin, che, tentando di trascendere il mondo concreto - una dimensione costantemente “inquinata” dall’evidenza incessante della temporaneità e corruttibilità del corpo umano - sembra proporre, tra i diversi e possibili percorsi e forme di resistenza, anche la ricerca della libertà e della diversità espressiva e, non ultima, della già accennata ricerca della Bellezza. Una qualità che, nei corpi tonici, anagraficamente e biologicamente ancora giovani dei Måneskin, certamente non scarseggia.
E le immagini che li ritraggono, ovviamente, non si limitano solo ad accennare superficialmente questa dimensione fisiologica e anagrafica del loro corpo, esplorandola, per quanto possibile, anche più a fondo, anche con qualche deriva già più... “spinta”. In particolare, attraverso una buona dose di fotografie di nudo (anche integrale) che caratterizza tanta parte dell’immaginario visuale anche di tanti altri artisti e/o musicisti. Una nudità che, seppure con le sue specificità, sembra essere in parte ispirata, per quanto concerne la sfera poetica, da ascendenze di orientamento naturista. Una poetica della Bellezza, che sembra celebrare sicuramente la gioventù e l’armonia fisiobiologica, ma, al tempo stesso, anche la dirompente forza d’urto creatrice delle nuove generazioni che il gruppo capitolino sembra ben impersonare. Una prospettiva, anche ideologica, che si contrappone, neanche tanto velatamente, a quella di generazioni coeve magari meno inclini al cambiamento.
Una nudità del corpo divenuta, peraltro, uno dei canali e dei motori della cultura visiva occidentale, sino alle sue derive - soft quanto hard - della pornografia.
Una cultura visiva che, attraverso la Fotografia, ha raggiunto il suo climax espressivo e, insieme, l’acme della sua efficacia, il momento culminante della sua funzione.
Il corpo nudo, anche quello (di solito) parzialmente svelato dei Måneskin, potrebbe rappresentare quindi anch’esso un sistema di segni di decodifica e di analisi di un mondo da rimettere, se necessario, tutto in discussione.
Un corpo nudo comunque corruttibile, emblema della fragilità umana. Una nudità dell’uomo che comunque non sembrerebbe, almeno in apparenza, la mera attestazione di uno stereotipo di presunta “normalità”. Uno stereotipo che la Fotografia, suo malgrado, ha comunque contribuito a diffondere nella cultura occidentale moderna, ponendo le basi per l’identificazione del “diverso”, del freak, della persona che si “discosta” da ciò che è considerato normale. Il corpo nudo è diventato, in questa (discutibile) prospettiva, uno strumento di comparazione, di confronto, di connotazione negativa, riguardo a possibili scostamenti dai relativi parametri di un'ipotetica idoneità e/o normalità. La nudità è quindi divenuta anche uno strumento ideologico “piegato”, nel corso del tempo, anche a specifiche norme e valori morali e politici, oltre che estetici. Un corpo nudo, dunque, ma, in ogni caso, non proprio “disarmato”. Una sorta di “arma impropria”, piuttosto. Uno strumento, quanto meno, di difesa, talora anche eversivo, per combattere contro i tabù preesistenti e, non ultimo, anche per affrontare scottanti questioni sociali e culturali del momento. Una forma di riappropriazione del proprio corpo, sviluppatasi progressivamente, a partire dal periodo delle Avanguardie, e via via trasformatosi in uno strumento di contrasto alle diverse forme di censura dell’espressione ancora tuttora dilaganti.
Il corpo nudo, attraverso la Fotografia è quindi via via sempre più divenuto un “varco” strategico di accesso e transito da e verso il mondo.
Un mondo che, attraverso questa “porta”, attraverso lo sguardo, esplora e valuta. E, così facendo, “dialoga” con il mondo e gli “descrive” il suo punto di vista. Un dare e avere che, in cambio, delinea nuovi e magari sconosciuti spazi di coscienza e conoscenza.
Il corpo non è dunque mai separato dal mondo.
All’opposto, è proprio “lo” strumento che ci permette di collegarci al mondo e, di volta in volta, misurarlo, organizzarlo e, eventualmente, anche di “incamerarlo”. Il corpo ci permette costantemente, quindi, di avere un’idea del mondo. Un quadro certamente con delle lacune, limitato e parziale, quanto astratto e inevitabilmente impreciso del “reale”. Ed è proprio con questo “mezzo” aleatorio ed incerto l’essere umano fa esperienza del mare di materia, di saperi, di culture e, quindi, di senso nel quale “nuota” incessantemente.
Tra questi, potrebbero eventualmente ricordarci i Måneskin, ci sono, per quanto ovvio, anche la musica e l’espressione corporea.
Musica e movimento intesi, sinergicamente, come un universo simbolico e gestuale di esplorazione degli spazi, non solo fisici, che “avvolgono” i corpi nella contingenza di ogni performance. Una rappresentazione simbolica del cammino di ricerca verso la conoscenza e la verità che caratterizza il cammino dell’essere umano. I gesti del musicista e/o del cantante che lo accompagnano durante l’esecuzione di un brano, seguono sovente uno specifico intento espressivo, una sorta di ideale cammino narrativo, percorso anche attraverso una continua rimodulazione prossemica degli spazi - metaforici e non - che “imprigionano” il corpo concreto di volta in volta coinvolto nelle sue “prestazioni”. Un corpo che è sia il punto di partenza sia l’orizzonte e la destinazione finale anche del cammino disvelatore del percorso narrativo rivelato dall’azione gestuale. Un corpo biologico che cantando e muovendosi tratteggia quindi un perimetro semantico, una cornice di interesse, un dentro e un fuori che imprimono a ciascuna esecuzione un marchio di esclusività. Un’impronta ogni volta unica all’atto, al gesto attraverso il quale, passo dopo passo, la parola suono, ovvero la musica, e la parola movimento, ossia il moto del corpo, si esprimono, confondendosi e divenendo essi stessi un ulteriore corpo significante. Una gestualità che non è, di norma, mai “inconsapevole”, ma sempre finalizzata, indirizzata. Un atto “politico”, anche in quest’ambito, determinato a percorrere un sentiero più o meno definito, volto a disvelare una determinata dimensione e/o una specifica “verità”. Gesti “orientati”, dunque, attraverso gli spazi fisici e sonori via via esplorati. Gesti e parole che, tuttavia, se presi singolarmente e scollegati da uno specifico e più ampio progetto di fondo e, pertanto, privi di una possibile destinazione finale, rischierebbero di apparire come atti chiusi in sé stessi, insensati, finanche “gratuiti”, che non rinviano a null’altro. Una condizione indispensabile perché anche lo spazio della musica cosi come quello del corpo in moto sono a loro volta ridefiniti dai gesti stessi, appunto, della musica e del movimento. Attraverso quei gesti l’atto “politico” condensato nell’interpretazione viene “piegato”, per così dire, oltre che ad una specifica destinazione d’uso anche a una ben definita cornice interpretativa. Un perimetro interpretativo e un (ri)orientamento verso una (talvolta) nuova e, eventualmente, anche differente verità. Per lo meno quella circoscritta dai gesti, ovvero dalle “parole” con le quali queste espressioni culturali si esprimono e, nel contempo, formulano ininterrottamente anche (meta)discorsi su sé stesse. Con i suoi tanti linguaggi espressivi il corpo materiale, pure attraverso la parola, le note e il movimento, ogni volta diviene una specie di metaforico varco, una specie di apertura verso/sul mondo. Senza questa sorta di cerimoniale espressivo il corpo fisico, muto e inerte, potrebbe avere - in termini tecnici - spazi diversi per esprimersi e “parlarci” del mondo, limitandosi, eventualmente, “solo” ad immaginarlo, senza forse condividerlo proprio appieno. Senza questa propensione comunicativa, senza questa cangiante liturgia di atti, le parole, le note, i gesti, potrebbero quindi risultarci addirittura senza alcun senso e incapaci, quindi, di “tradurci” il mondo. Dissolvendo, così, anche le molteplici capacità espressive e gli sforzi narrativi del corpo reale “a contatto” con il mondo.
Le diverse geografie visive create dai corpi fotografati dei Måneskin condenserebbero, in questa prospettiva, una sorta di esempio rappresentativo, tra altri possibili. Un esempio di “traduzione” in immagini delle ininterrotte interrelazioni del nostro corpo duplice - dell’anima e del corpo, per intenderci - con il mondo. “Traduzioni”, dunque, realizzate collegando ad ogni atto, ad ogni idea creata, il relativo contenuto. Ed ogni volta questo corpo doppio si rimette quindi “in gioco” sostenendo il suo rapporto con il mondo. Queste connessioni, questa interdipendenza, sembrano documentare concretamente le tante espressioni dell’anima e della coscienza del corpo e del suo essere nel/al mondo. In questa prospettiva, il corpo può apparire esso stesso sia una “cosa”, un oggetto sia, al tempo stesso, “lo” strumento (accennato in apertura) atto a tessere questa trama di scambi materiali e/o simbolici, nel fitto e continuo intreccio dialettico con il mondo.
Una rete di senso, intessuta incessantemente per dare e darsi un senso, per dare e darsi un fine.
Per dare un fine anche a quelle esistenze scandite magari dalla sofferenza e dal dolore. Dolore e sofferenza che mettono in evidenza tutta la fragilità umana.
Una fragilità umana alla quale, sembra che i Måneskin tentino di opporre, tra gli antidoti possibili, anche la Bellezza.
Una Bellezza che, considerata anche la loro giovane età, emerge e li "attraversa" vivace e fresca come l’acqua di un ruscello di montagna. Una narrazione (anche estetica) che sembra dipanarsi progressivamente come la pellicola di un intrigante lungometraggio.
Ed è proprio nell’ambito cinematografico, al quale i Måneskin con This Is Maneskin sono peraltro già approdati nel 2018, che il termine fotogènico è stato utilizzato inizialmente e ha cominciato a circolare in maniera abituale, per quanto sia stato originariamente preso in prestito proprio dal mondo della Fotografia, divenendo poi universalmente sinonimo di un soggetto idoneo, per le qualità estetiche, a poter essere ripreso perché, appunto, fotogènico.
L’aggettivo fotogènico, andando all’etimologia del termine, proviene dall’inglese photogenic (composto da photo- «foto-» e -genic «-genico») e dal francese photogénique. Entrambi i termini, originariamente avevano il significato dell’aggettivo italiano fotògeno, ovvero quello di «atto a impressionare un materiale fotosensibile». Il termine fotogènico ha dunque variato il suo significato nel corso del tempo, passando dal riferirsi a una caratteristica specificatamente tecnica alla temuta connotazione estetica dei nostri giorni. Una qualità, che, l’universale e pervasivo mondo dei social, ha reso oggigiorno ancora più “indispensabile” e strategica. Un problema per tanti affatto astratto e per molti di questi, nemmeno arbitrario. Una preoccupazione in crescita esponenziale, a quanto pare, che, rispetto alla dimensione più contenuta e/o più di nicchia del passato, risulta ulteriormente amplificata nell’economia relazionale della rete. Una dimensione nella quale, ad esempio, il possesso o meno di una simile qualità, può avere riflessi significativi sulla propria visibilità e/o (eventuale) autopromozione, come ben sapranno i Måneskin. Effetti, conseguenze, che, concretamente, possono tradursi in successo o insuccesso del protagonista delle relative immagini, a prescindere dalla destinazione d’uso alla quale sono, di caso in caso, eventualmente indirizzate: loisir, portfolio, follower, etc.
La fotogènia condensa, quindi, un potenziale talora persino strategico, grazie alla sua capacità di amplificazione delle qualità estetiche del protagonista ritratto. Una specie di “arma” non convenzionale, atta concretamente anche ad “offendere” possibili antagonisti. Un’“arma”, dunque, perché la fotogènia può essere colta “al naturale”, dando un adeguato risalto alla bellezza già presente in ciò (persona o cosa) che viene raffigurata o, all’occorrenza, amplificata o persino “creata”, ove manchi, mediante l’utilizzo di uno dei tanti software dedicati.
La fotogènia, in ogni caso, è di norma considerata un attributo non tanto soggettivo, quanto oggettivo. Una qualità, dunque, un “talento” estetico naturale che, semplicemente, talune cose, così come talune persone, hanno, altre no. Questa qualità, ancor più se è naturale, può essere rilevata, in particolare, nella semplicità, nella naturalezza e spontaneità di una persona. Qualità che certamente non sembra mancare al gruppo romano dei Måneskin. Qualità, queste, che, in fase di produzione o di post-produzione, devono comunque essere adeguatamente rese e valorizzate. In questa prospettiva, tutto, oggettivamente, può risultare fotogènico. Anche la “realtà” può dunque rivelare un suo “lato” fotogènico. Ne è una dimostrazione ormai incessante - e evidentemente contrapposta alla precedente visione “naturale” della fotogènia - la dimensione iperbolica e “sovrannaturale”, sempre più artificiosa e artificiale (sino e oltre la fiction, se del caso) dei media contemporanei. Le loro rappresentazioni non hanno ormai - nel bene e nel male - praticamente quasi più nulla di naturale. Speriamo che non divenga questo, almeno in via assoluta e prevalente, anche il destino di questa giovane band capitolina.
La fotogènia rappresenterebbe, in ogni caso, e, quindi, anche per i Måneskin, la qualità - naturale o artificiale che ne sia stata l’origine - in grado di donargli persino una sorta di immortalità, preservandoli virtualmente dalla dissoluzione e “resuscitandoli” potenzialmente all’infinito in tutte le immagini nelle quali sono stati o saranno raffigurati.
La fotogènia potrebbe quindi salvare anche i Måneskin da un'eventuale quanto possibile “morte” o, per lo meno, ritardarne l’arrivo.
Una sorta di morte immaginaria, s’intende, come quella che potrebbe essere causata, ad esempio, ad un eventuale calo d’interesse futuro nei loro confronti. Una specie di protezione “soprannaturale”, che, come appena accennato, si realizzerebbe attraverso il transfer attivato dalle tante immagini nelle quali vengono raffigurati questi musicisti. Un transfert che, per quanto ovvio, prenderebbe forma solo nel caso “resista” in loro un tipo di Bellezza, come già detto, fotogènica. E solo in presenza di una simile e persistente forma di amplificazione estetica, che agisca come un’efficace e duratura profilassi, potrebbe forse essere meglio salvaguardata, per quel che qui ci interessa, anche la vita artistica della formazione romana, “sconfiggendone”, per lo meno a livello visivo, la comunque possibile (loro) “morte”. E, in tal modo, “facendo sistema” con le loro altre qualità umane, con il loro talento, con la loro forza d'urto di gruppo emergente, etc., garantirgli, magari per sempre, un successo crescente e, non ultima, una carriera professionale lunga ed inossidabile.
E, parlando della fotogènia, si è inevitabilmente evocato anche il rapporto che, da sempre, la Fotografia intrattiene anche con la Morte.
Una dimensione che, per quanto risulti totalizzante, tenendo conto della loro già accennata giovane età, potrebbe non essere proprio prioritaria nell'agenda e, ancor meno, nelle “corde” di questa (comunque) sensibile rock band.
Al riguardo, R. Barthes - il semiologo francese, autore, fra l’altro, del celebre La camera chiara - ha evidenziato la forza anche trascendente e la tenacia di questa relazione, facendo riferimento, in modo particolare, alle immagini di ritratto. Più nello specifico, a livello fenomenologico, ci ha ricordato come in qualsiasi ritratto, in special modo se la persona e/o il corpo raffigurato sia quello di una persona ormai scomparsa, nell’immagine possa emergere e configurarsi una sorta di gesto “magico”, onnipotente. Un gesto speciale, anche per le ragioni già accennate, e, a tratti finanche trascendente. Una “magia”, quella della Fotografia generalmente tesa, non tanto a celebrare la dissoluzione del mondo, quanto, sebbene per frammenti visivi, a “ridargli la vita”. Un dispositivo simbolico, la Fotografia, di resurrezione visiva e, insieme, di conservazione della memoria. Memoria, come di norma ha ben presente che opera nel campo dell’entertainment, che potrebbe altrimenti e irrimediabilmente, magari all’improvviso, come d’incanto, anche dissolversi. Una memora che fa della Fotografia una strategica protesi affettiva e documentaria. Anche per queste ragioni, nell’immaginario collettivo, la Fotografia, nonostante il suo “ritrarsi”, si conferma tuttora come uno dei più importanti - se non, addirittura, “il” medium privilegiato - per la conservazione del passato. E non solo quello personale.
Una Fotografia che, “congelando” il Tempo, e, quindi, per quel che potrebbe interessare i Måneskin, dovrebbe poter provocare anche una sorta di disorientamento nell’osservatore, raggiungendo il culmine dell’efficacia del medium.
Un confine estremo, secondo G. Celant, che si realizza allorché:
“La fotografia raggiunge la sua massima soluzione solo quando è in grado di ostacolare il flusso inalterato dell’esistente e a trasformarlo in visione pietrificata.”
Una funzione strategica, quella della “pietrificazione”, che la Fotografia svolge da sempre, in ogni caso, in modo discreto, in sostanza senza mai mostrarsi. Si, perché la Fotografia si sottrae sistematicamente, ha aggiunto il semiologo francese per “lasciare spazio” al (s)oggetto, al corpo, all’oggetto, all’ambiente ritratto nell’immagine. E, così facendo, la Fotografia non solo “rende presente” il “corpo” della scena raffigurata, ma la rende anche “al presente”. Al riguardo, R. Barthes ha inoltre paradigmaticamente ricordato che la Fotografia è:
“sempre invisibile.”
Ciò detto, ogni immagine fotografica, come potrebbe esserlo nell’ambito di questa riflessione, una qualsiasi fotografia dei Måneskin, sembra inoltre non perdere mai del tutto la sua forza documentativa. Una proprietà che non riguarda tanto e/o esclusivamente il (s)oggetto raffigurato nella fotografia quanto la relativa componente temporale. Aspetto, questo, che lo studioso transalpino ha evidenziato ulteriormente, aggiungendo che:
“Da un punto di vista fenomenologico, nella Fotografia il potere di autentificazione supera il potere di raffigurazione.”
Uno degli esempi rappresentativi, tra i diversi possibili, sempre pensando alla rock band italiana, potrebbero certamente essere, come quella qui proposta, le loro fotografie di gruppo.
Si tratta di una parte costitutiva rilevante, planetaria e trasversale del “corpo” poliedrico della Fotografia. Un genere al quale la Fotografia da sempre attinge e si alimenta. Un corpo sociale di rilievo e, insieme, corpo esso stesso nel più ampio corpo della Fotografia. Parte di un organismo articolato, dunque, “testo” significante e, insieme, documento prezioso e trasversale non solo per la Storia della Fotografia ma, più in generale, dell’Arte e della Storia della società non solo contemporanea. Senza dimenticare, poi, le “incursioni” di questi come di altri generi anche in altri ambiti, apparentemente anche molto distanti e dei quali si riaccennerà più avanti, quali quello dell’Arte concettuale, dei ready made e, non ultimo, delle installazioni. Un tratto distintivo di questo genere di immagini, come potrebbero testimoniare anche quelle che ritraggono i Måneskin, è verosimilmente individuabile nelle pose spesso stereotipate dei soggetti che vi sono ritratti. Corpi rituali che applicano precise regole di ingaggio in occasione, ad esempio, di celebrazioni, eventi, etc. Liturgie specifiche, con tanto di mimica, prossemica e pose di rito. Una sorta di elementi di certificazione “doc”, di garanzia di prodotto di origine controllata e delle eventuali relative retroagenti agenzie di socializzazione. Agenti sempreverdi, tradizionali e/o neoformazioni sociali che siano, che agiscono anche da collante sociale. Marchi di autenticità, dunque, e, insieme, un invisibile paratesto narrativo, con tanto di figure formali, ruoli attanziali, valori fondanti, etc., inerenti uno specifico corpo sociale, che, in questo nostro caso, è il gruppo musicale dei Måneskin. Un prodotto culturale, ormai internazionale, che, al momento, rappresenta una sorta di punta di diamante tra i recenti output del sistema organizzato dell’industria culturale nostrana.
Ma non solo.
Infatti, come ci testimoniano pure le fotografie dedicate ai Måneskin, le fotografie di gruppo che li raffigurano sono, oltre che una forma di documentazione, anche una forma di astrazione.
Altrimenti detto: una sorta di opera concettuale.
Astrazioni, dunque, media “bizzarri”, come li definirebbe R. Barthes, che fanno circolare “messaggi senza codice”, che mostrano una realtà comunque “intrattabile”.
La loro bizzarria non gli permette comunque di “parlare” senza l’aiuto di un “ventriloquo”, ovvero senza una “voce esterna”. Un altro medium, quindi. Come, ad esempio, un’apparentemente innocua e neutra didascalia esplicativa o un più ampio articolo di supporto. Una condizione di assurdo mutismo, che solo un ventriloquo che “parli” al posto dell’immagine fotografica - importando senso di norma dall’esterno e incollandolo “dentro” l’immagine - le permette poi di “parlarci”. E, “parlandoci”, di rivelarci che in essa è condensata, ad esempio, una particolare storia del gruppo rock della Capitale o altro ancora.
La Fotografia - e questa è una regola d’ingaggio del medium del quale si è obbligati a tenere debitamente conto - è simile a un corpo umano, che esiste e funziona anche grazie e attraverso il contributo di altri “corpi-organi”, ovvero, per quel che qui si tratta, per mezzo di altri media.
Organi di norma “interni”, nel caso del corpo umano. Organi di norma “esterni”, ovvero altri media non contenuti “dentro” l’immagine, invece, nel caso della Fotografia.
Portatori esogeni di senso, che concorrono dall’esterno a “dare una forma” e una “voce” ad ogni immagine fotografica. Un’immagine che vive, dunque, proprio attraverso l’intermediazione della ventriloquia mutuata da altri media, di norma esterni ad essa, è le permettono di “dialogare” con il mondo.
E non c’è alternativa per qualunque tipo di immagine - così come per una qualsiasi altra possibile fotografia che ritragga i Måneskin- per uscire dal loro mutismo congenito, se non ricorrere, come accennato, all’aiuto “esterno” di altri media. Nella “casa di vetro” della Fotografia, “dentro” ogni immagine, in sostanza, non c’è di norma nulla, se non si importa del senso dall’esterno. Tutto o quasi quel senso, la narrazione, i valori, etc., arrivano di solito da un’altra parte, posta dunque fuori dall’immagine. Un altrove, un “fuori”, che, di norma, è dunque tecnicamente estraneo all’immagine. E le fotografie dei Måneskin non fanno, ovviamente, che confermarcelo. Anzi, ne sono proprio, oltre che un'ennesima conferma, una rappresentazione emblematica.
Volendo integrare il discorso e cercare di fare un piccolo esempio riguardo a come funzioni questo meccanismo di iniezione di senso dall'esterno, potremmo tentare di immaginare di realizzare un piccolo esperimento. Potremmo ipotizzare, ad esempio, di descrivere molto sinteticamente la situazione e le