Pærson e la veridizione - Un racconto non proprio (ir)reale tra Fotografia, Parkinson e Semiotica
Pærson e la veridizione
Un racconto non proprio (ir)reale tra Fotografia, Parkinson e Semiotica*
Abstract
Il racconto si svolge su un immaginario pianeta chiamato Tuttora, dove vive Pærson, una persona di mezza età che da più di dieci anni convive con la Malattia di Parkinson. La sua condizione lo fa sentire un pesce fuor d'acqua, poiché la malattia viene erroneamente associata all'età anziana, mentre in realtà colpisce anche molti giovani. La Malattia, purtroppo, non ha una cura risolutiva e Pærson deve affrontare giornate complesse con sintomi che sembrano rispondere solo temporaneamente ai farmaci.
La narrazione ci introduce ai molteplici aspetti della vita di Pærson, dallo stigma e le percezioni distorte legate alla malattia fino all'importanza della Fotografia e della Semiotica. Questi due campi si intrecciano nella storia, poiché Pærson utilizza la Fotografia come strumento per esplorare le dinamiche delle relazioni interpersonali e i preconcetti legati alla sua condizione.
Il racconto esplora come le immagini possano essere lette in diverse prospettive e come il quadrato semiotico possa aiutare a comprendere le dinamiche della verità e della menzogna nei messaggi comunicati. Pærson riflette sulla necessità di superare gli stereotipi e gli stigmi associati alle malattie, promuovendo una maggiore empatia e comprensione.
Il protagonista è consapevole che i pregiudizi possono condizionare le interazioni sociali e lavorative, ma spera che attraverso la conoscenza e l'apertura mentale, sia possibile abbattere questi ostacoli. Il racconto ci invita a riflettere sul valore della verità, sull'importanza di andare oltre le apparenze e sulla necessità di creare comunità più accoglienti e compassionevoli.
In un susseguirsi di momenti onirici e riflessioni, Pærson spera che il progresso possa portare un cambiamento e una maggiore comprensione per coloro che vivono con la Malattia di Parkinson. Il racconto culmina in una consapevolezza personale di come la comunicazione, la percezione e la veridizione possano influenzare la vita e le relazioni di una persona con una patologia neurodegenerativa.
Il racconto si chiude con una nota di autocritica dell'autore, Gerardo Regnani, che sottolinea come il protagonista, Pærson, sia puramente frutto della fantasia e che il racconto non abbia alcun riferimento esplicito alla realtà.
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C’era una volta, in un immaginario, tremulo pianeta chiamato Tuttora, posto ai margini di Tutt’intorno, la vicina costellazione minore, una persona di mezza età che conviveva da oltre un decennio con la Malattia di Parkinson.
Il suo nome era Pærson.
La sua condizione, oltre ai sintomi propri della malattia, gli faceva subire anche l’ulteriore beffa di sentirsi come “un pesce fuor d’acqua”, essendo costretto a convivere, non ancora anziano, con una patologia allora erroneamente considerata dai più come una comune malattia della vecchiaia. Una malattia che gli risultava, invece, colpisse già allora in misura crescente anche tantissimi giovani e persino molti giovanissimi. Una patologia a quel tempo considerata inarrestabile che, anche in ambiti professionali insospettabili, sapeva ancora testardamente bollata con il nome di “Morbo”, pur non essendo affatto una malattia contagiosa. Una malattia neurodegenerativa progressiva che, paradossalmente, sembrava tanto apparentemente nota quanto, in realtà, poco conosciuta. Una patologia che, anche a causa di questa diffusa ignoranza, gli risultava anche “beneficiaria” di uno stigma strisciante duro a morire, che, verosimilmente, contribuiva a farla ancora considerare una malattia di Serie B.
Come se non bastasse, in quella fase del suo decorso, essendo nelle sue fasi iniziali, la patologia presentava anche l’ulteriore insidia di risultare apparentemente poco o per nulla visibile “grazie” al mendace, momentaneo mascheramento indotto dalla copertura farmacologica in alcune “finestre” orarie giornaliere. Una temporanea cortina fumogena che certamente non contribuiva a depotenziare lo stigma accennato poc’anzi, ormai già ben “incollato” a questa subdola patologia.
Un’ulteriore, tragica beffa, sapendo di essere di fronte ad una malattia progressivamente invalidante, che superficialmente sembra rispondere - in ogni caso, in una progressione inesorabilmente decrescente - alle terapie farmacologiche, che attenuano temporaneamente la sola sintomatologia. Più nel dettaglio, si tratta di una dieta di farmaci che, sostanzialmente, ruota ancora tutt’intorno alla “L-dopa” (incluso il post “DBS”). Si, proprio (e sempre) la stessa famosa L-DOPA - o levodopa, l’amminoacido intermedio nella via biosintetica della dopamina - dell’altrettanto celebre film “Risvegli” (“Awakenings”) del 1990, diretto da Penny Marshall, con Robin Williams, Robert De Niro e Penelope Ann Miller, basato sui ricordi e l'esperienza del neurologo e scrittore britannico Oliver Sacks raccolte nel suo omonimo libro.
E, ancora, senza l’ombra certa di una vera e propria cura risolutiva.
In futuro, pensò Pærson, anche a Tuttora arriverà il progresso e qualcosa, finalmente, cambierà.
Mentre pensava questo, sentì una sgradevole sensazione di umido bavoso che, dal lato della bocca si era poi diffuso a buona parte della guancia e del… guanciale! Eh sì, perché, mentre si era finalmente assopito dopo aver passato una notte quasi insonne, la scialorrea - uno delle decine e poco noti sintomi non motori del Parkinson - non aveva invece dormito affatto, facendo sbavare Pærson e inondando di saliva anche il suo cuscino.
Per di più era tardissimo e sarebbe arrivato nuovamente trafelato al lavoro, mal rasato, mal vestito, mal disposto, stanco e depresso, anche al pensiero di dover ancora una volta conciliare questo suo stato con un’altra giornata complicata.
Come tante altre, del resto.
Uno stato di cose che Pærson, come tanti altri parkinsoniani, viveva - o, meglio, subiva - quotidianamente più o meno stoicamente.
Tendenzialmente paziente, tenace e animato da uno spirito proattivo e resiliente, Pærson cercava comunque di gestire al meglio possibile le performance del suo sgradito ospite. Lo faceva pur essendo ben consapevole che, intanto, nulla era cambiato e continuava a non esistere alcuna cura capace di debellare la malattia.
Uno spirito che definiva, prendendo a prestito l’espressione di un noto scrittore di origini siciliane: “pessimismo costruttivo”.
Cercava dunque, a suo modo, innanzitutto di non ripiegarsi su sé stesso, continuando dignitosamente ad offrire un suo piccolo, costante contributo come: persona, genitore, partner, amico, etc.
Non ultimo, come lavoratore.
Un “lavoro”, quello stesso di cercare di non auto isolarsi, comunque non facile, ancor più, per chi, come Pærson, era divenuto anzitempo più “fragile” a causa di quest’ospite insidioso, non ultimo, perché non sempre ben visibile.
Un’indeterminatezza che aveva portato Pærson a riflettere spesso sulla cruciale contrapposizione tra l'essere e il sembrare.
Aveva sperimentato personalmente, infatti, come questa emblematica dualità potesse “fotografare” e riassumere tanto le complesse dinamiche dei rapporti interpersonali quanto temibili riverberi frutto di preconcetti, errate percezioni e/o valutazioni.
Come chiunque ha potuto magari constatare, non di rado ciò che sembra essere non corrisponde poi alla realtà effettiva dell'essere. In questo apparire può giocare un ruolo determinante l’eventuale emergere, come accennato poc’anzi, di uno stigma che può colpire anche una persona malata, compromettendone le interrelazioni all'interno della propria comunità sociale, lavorativa, familiare, affettiva e/o amicale di riferimento.
Lo stigma, Pærson lo aveva imparato a sue spese, è una forza potente e distruttiva, alimentata dall’ignoranza, dalla mancanza di comprensione, dalla paura dell'ignoto e da idee preconcette radicate nell’immaginario collettivo. Può rendere difficile per le persone vedere al di là delle apparenze e apprezzare la vera essenza di un individuo. Quando ciò accade, si possono verificare danni profondi nei rapporti interpersonali, con conseguenze negative sia per chi è oggetto dello stigma sia per chi lo perpetua.
Queste erronee percezioni possono influenzare il modo in cui una persona è trattata, limitando le sue opportunità e il suo accesso a risorse, relazioni, supporti. Il pregiudizio può portare a giudizi affrettati e alla discriminazione, creando barriere tra le persone invece di favorire l'inclusione e la comprensione reciproca.
Ed essere malati, Pærson lo sapeva, non rende certo immuni da queste dinamiche.
Riconoscere i preconcetti e gli stereotipi che portano allo stigma, Pærson ne era convinto, sarebbe quindi stato il primo passo per cercare di superarli. Così come fosse fondamentale (in)formare le persone sulla complessità della natura umana e promuovere una maggiore empatia e tolleranza verso le differenze.
Pærson era dell’idea che solo attraverso un dialogo aperto, la volontà di imparare e l'apertura alla diversità possiamo sperare di creare comunità più accoglienti e compassionevoli.
In tale prospettiva, riteneva essenziale sfidare le idee preconcette e cercare di vedere le persone per ciò che sono veramente, andando oltre la “superficie” e comprendendo le loro esperienze, sfide e aspirazioni. Solo così immaginava possibile creare connessioni più autentiche e costruttive, contribuendo a un mondo in cui ogni stigma sia stato azzerato o, quanto meno, ridotto e sia promosso il rispetto reciproco.
Era dell’avviso che, per meglio condividere questa visione, fosse necessario che questa si consolidasse meglio innanzitutto in lui stesso.
Per tale ragione, Pærson, tra altri, cercò di conoscere meglio, interagendovi, alcuni media e, insieme, “interlocutori”, secondo lui, cruciali.
Media strategici, quali: la Fotografia e la Semiotica e, non ultimo, il loro rapporto con i preconcetti.
In questa rete di interrelazioni e di conoscenza comprese meglio, ad esempio, le potenzialità della Fotografia.
Uno strano, poliedrico “oggetto” sul quale, da sempre, si è molto dibattuto tra diversi orientamenti interpretativi. Tra questi, a Pærson piacque immaginarla secondo la definizione che ne aveva dato Umberto Eco, che aveva definito la Fotografia una “materia espressiva”.
Una materia espressiva, come potrebbero esserlo altri media, tra i quali, ad esempio, la voce. Come avviene con la voce, Pærson constatò che anche con la Fotografia possono essere prodotti tanti, differenti, artefatti semiotici, Artefatti ai quali, Pærson constatò come la Fotografia riuscisse a “dare forma” e senso attingendolo da elementi di significazione di norma posti all’esterno dell’immagine vera e propria.
Per meglio comprendere e gestire questi artefatti semiotici, Pærson familiarizzò - inevitabilmente, si potrebbe aggiungere - anche con la Semiotica.
Di questo articolato ambito di studi, lo interessò, in particolare, il “quadrato della veridizione”, una delle varianti del c.d. “quadrato semiotico” (d’ora in poi soltanto “quadrato”) e, ovviamente, dei suoi eventuali “rapporti” con i preconcetti.
I preconcetti, come Pærson aveva potuto verificare divenendone col tempo anche lui “beneficiario”, sono una sorta di arma impropria molto insidiosa, perché fondata su convincimenti, idee, opinioni prive di giustificazioni razionali o non suffragate da conoscenze ed esperienze dirette.
Ma, proprio per questo, i preconcetti possono talora risultare anche estremamente pericolosi.
Ed era stato proprio, come si è accennato, sperimentando sulla sua pelle i “riflessi” dei preconcetti, che aveva constatato come un’idea distorta e infondatamente pregiudiziale possa rappresentare un pericolo serio e carico di conseguenze. Pertanto, analogamente quanto si farebbe nell’ambito della safety, comprese come fosse vitale valutarne adeguatamente a monte il relativo gradiente di pericolosità all’“esposizione”, gestendolo poi, a valle, alla stregua di una sorta di vero e proprio “rischio specifico”.
In quest’ottica, “scoprì” e poi utilizzò - per integrare e migliorare ulteriormente la sua personale “valutazione dei rischi” - il già citato quadrato.
Pærson, approfondendone la conoscenza, capì che con questo strumento sarebbe stato possibile esaminare e comprendere meglio la categoria semantica della verità.
La veridicità di una materia significante, sia essa un enunciato, un testo, etc.
Non ultima la veridicità di un’idea, così come di un’immagine.
Anch’esse, in fondo, una sorta di fotografia di… qualcos’altro.
Questo “arnese” era stato introdotto nel c.d. “Schema Narrativo Canonico” dal semiologo di origine francese Algirdas Julien Greimas e poi applicato nell’ambito degli studi dedicati alla semiotica generativa.
Approfondendone ulteriormente la conoscenza, apprese che il quadrato si basava su quattro elementi fondamentali:
Divenne quindi chiaro a Pærson come il quadrato analizzi le relazioni tra questi quattro elementi per consentire di comprendere meglio come il significato si formi e si trasmetta attraverso il linguaggio.
Verificò, in sostanza, come il quadrato aiutasse a stabilire se il discorso o il testo corrisponde o meno alla realtà (veridizione) o se si limita a esprimere un punto di vista o una costruzione soggettiva (enunciazione).
Veridizione intesa, in particolare, come la connessione specifica - all’interno degli anzidetti: enunciati, testi, immagini, idee - tra un soggetto e un predicato. Una connessione che espressa e condensata nel quadrato tra le due fondamentali categorie semantiche, estreme e contrarie, dell’essere e del sembrare.
Nel quadrato questa contrapposizione è schematizzata sulle relative diagonali (cfr. lo schema proposto).
In particolare, notò che questa schematizzazione evidenziava due specifiche correlazioni:
Correlazioni, così come l'articolazione stessa della veridizione, riassunte nei lati del quadrato.
E per non trattarne solo astrattamente, Pærson pensò anche a come queste correlazioni avrebbero potuto “tradursi” in una forma di lettura e di analisi concreta della vita reale. Un’analisi dedicata, ad esempio, a specifiche azioni e/o comportamenti di una qualsiasi persona realmente esistente. Un’ipotetica persona qual4unque, come avrebbe potuto esserlo, in fondo, anche lui stesso.
Apparve quindi più chiaro a Pærson come queste ipotetiche correlazioni avrebbero potuto concorrere all’interpretazione o all’eventuale distorsione anche del suo “reale”. “Inquinandone”, conseguentemente, anche le relative interrelazioni.
In quest’ottica, gli fu chiaro come l'utilizzo del quadrato si rivelasse uno strumento particolarmente adatto anche al suo caso. Lo strumento, infatti, gli consentiva di schematizzare il rapporto tra il linguaggio e il mondo reale e, insieme, delineare sommariamente come le informazioni possano essere trasmesse e/o interpretate. E proprio “applicandolo” al suo caso, a Pærson sembrò di averne un’ulteriore conferma.
Una triste routine di Pærson, così come per tutti parkinsoniani come lui, di oscillazioni vissute più volte al giorno, durante il c.d. switch "on/off". “Fluttuazioni” tra uno stato di apparente normalità psicofisica e uno, opposto, segnato dal riemergere di deficit fisici e/o cognitivi.
Pærson si chiese, a questo punto, se la Fotografia sarebbe stata o meno in grado di “congelare” un momento di freezing, piuttosto che altri sintomi tipici della malattia, restituendone un quadro adeguato e, soprattutto, oggettivo. Come accennato prima, era consapevole che, come qualunque materia espressiva, anche la Fotografia “parli” per ventriloquia e non con una voce propria, attingendo di norma altrove il senso, i significati veicolati. La “lettura” di una medesima immagine può quindi cambiare, anche radicalmente, in relazione al “destinante” o all’“opponente” che, di volta in volta, la adopera. Così come può cambiare la relativa “destinazione d’uso” - o le idee preconcette - poste a monte e “incollate”, ad esempio, in una fotografia.
Una pericolosa ambivalenza che Pærson “verificò” ulteriormente applicando al suo caso le schematizzazioni delle diverse categorie ipotizzate dal quadrato indicate qui di seguito:
L’essere e il sembrare - dimensione della verità: ciò che appare è la rappresentazione di ciò che realmente è: Pærson ipotizzò che la verità della sua condizione avrebbe potuto essere palesata con l’“aiuto” di un’istantanea nella quale risultasse tangibile almeno uno dei sintomi caratteristici, quanto poco noti, della sua patologia, come: l’ipomimia, la postura a “Torre di Pisa”, la scialorrea, le discinesie, etc. Insomma, tutta quell’articolata sintomatologia che, purtroppo, riemerge - talora anche in simultanea - ad ogni fine dose.
L’essere e non sembrare - dimensione del segreto: quando l’apparenza inganna, perché ciò che sembra sia stato percepito, compreso, etc. non è quel che, di fatto, realmente è: Pærson pensò all’eventualità di essere “paparazzato” in un’istantanea in un momento nel quale si trovasse, momentaneamente, “sotto copertura” (farmacologica) e, pertanto, non si palesasse (restando segreta) la sua reale condizione di parkinsoniano. Ad esempio, durante le brevi “finestre” giornaliere nel corso delle quali, al freezing può magari opporre una piccola corsa, un’uscita in bici, etc. In quelle fasce “coperte” Pærson, “agendo in incognito”, nasconde (apparentemente e momentaneamente) la propria reale condizione clinica, non apparendo, quindi, come persona con la Malattia di Parkinson.
Non essere e non sembrare - dimensione della falsità: circostanza questa, nella quale ciò che appare è una rappresentazione (falsa) di qualcos’altro, che, concretamente, non è e/o non esiste: Pærson immaginò il “prendere forma”, in questa schematizzazione, di una situazione nella quale, per quanto tentasse, nascondendo la realtà, di mantenere il segreto sulla sua reale condizione - ad esempio, simulando l’assenza del Parkinson per ottenere qualcosa che altrimenti gli sarebbe stata preclusa - fallisse invece miseramente nell’intento; perché “smascherato” proprio da un’istantanea, che, in questo ipotetico caso, gli si ritorcesse contro, mostrandolo, invece, nella sua reale condizione di parkinsoniano.
Sembrare e non essere – dimensione della menzogna: in questo caso quello che appare è una rappresentazione menzognera: Pærson immaginandosi al pari di una spia, e, pertanto, mentendo, immaginò di posare per un’istantanea nella quale non si palesasse affatto la sua condizione; “tra-vestendosi” come se fosse un individuo che sembri sano, non mostrando, quindi, la sua condizione di parkinsoniano.
A valle di queste schematiche esemplificazioni - ovviamente adattabili anche ad altri svariati e possibili protagonisti, contesti, circostanze, etc. - a Pærson apparvero ancora più evidenti alcuni dei temibili scenari relazionali nei quali, il pericolo di innesco di un rischioso fraintendimento interpretativo era tutt’altro che improbabile. Con le relative, potenziali (anche gravi) conseguenze.
Riflessi, potenzialmente ancor più gravi qualora fossero eventualmente alimentati a monte - ad esempio nell’ambito lavorativo - oltre che da possibili preconcetti, anche dall’eventuale, complice, compresenza di (“ingenue”!?) forme di ignoranza sull’effettiva natura e decorso della Malattia di Parkinson.
Pærson ebbe ancor più consapevolezza del potenziale “armamento bellico” di eventuali letture erronee e/o distorte considerando come il quadrato – nell’ambito della sua applicazione nella semiotica narrativa – schematizzi, tra l’altro, degli agglomerati semantici “carichi” di tipologie ridondanti. Ridondanze che si addensano in insiemi di categorie di senso “sovraccariche”, quanto ricorrenti, che, proprio “sfruttando” questa loro particolare ridondanza, rendono possibile, di fatto, la lettura omogenea di una qualsiasi forma di narrazione (esplicita o sottintesa, concreta o astratta che sia). Ridondanze che, come aveva già a suo tempo evidenziato il semiologo Greimas, concorrono anche alla definizione della relativa ’”isotopia” di fondo.
Un’isotopia narrativa autonoma, in grado di “dare vita” alla “verità” propria della narrazione.
Approfondendo ulteriormente, verificò anche che questa isotopia può palesarsi nel racconto già ad un livello narrativo più profondo, rispetto a quello “di superficie”. Livello di superficie nel quale gli attanti, venendo finalmente “a galla”, assumono quindi i nomi e/o i ruoli nei quali, tradizionalmente, siamo abituati a conoscerli. Come potrebbe esserlo, ad esempio, nel caso di una classica favola, la principessa tale, la strega tal altra e così via - con i relativi, differenti gradienti di articolazione e complessità delle “loro” storie.
Per Pærson si delineò quindi meglio la capacità del quadrato di palesare la presenza dell’isotopia nelle seguenti articolazioni, ovvero:
Divenne più evidente per Pærson come “il” modello concettuale della semiotica si potesse utilizzare per analizzare e comprendere meglio le dinamiche comunicative tra mittente e destinatario in una determinata situazione di interrelazione. Un modello concentrato sulle relazioni tra verità e menzogna nei messaggi comunicati. Strategico, dunque, per esaminare diversi contesti comunicativi, inclusi che aveva preso in considerazione, applicandolo al suo caso e, nello specifico, alle conseguenze di possibili erronee e/o distorte interpretazioni di ipotetiche “istantanee” che lo avessero ritratto durante l’avvicendarsi quotidiano nelle/delle sue fluttuazioni (infra dose) giornaliere.
Le schematizzazioni del quadrato semiotico, in definitiva, gli permisero di “concretizzare” come la comunicazione potesse risultare condizionata, ad esempio nel caso di una persona con la Malattia di Parkinson che ancora lavori, allorché vi siano eventualmente interlocutori che possano, anche solo per colpa e non necessariamente per dolo, avere delle idee preconcette e/o non aver piena consapevolezza degli esiti degli on/off infra giornalieri e, più in generale, di cosa sia e/o significhi convivere con la Malattia di Parkinson.
Una patologia per la quale, a differenza delle classiche favole - pensò infine Pærson, augurandosi non si confermasse così per sempre - non era possibile prevedere, neanche nel migliore degli scenari, un… lieto fine.
Improvviso, il trillo della sveglia sul comodino, lo riportò alla prosaica, grezza, realtà: non era né a Tuttora né, tanto meno, a Tutt’intorno, perché, in verità, aveva appena fatto un altro dei suoi stramaledettissimi e articolati sogni… vividi. Per di più, “annegandolo” in tutto quel mare di fottutissima Semiotica, forse per ricordargli quale incubo era stato quella palla odiosa di esame universitario che aveva rinviato più volte.
E alzandosi per andare a pisciare, lottando contro il gran mal di testa post sbornia che lo tormentava, gli sembrò vagamente di ricordare di aver letto o sentito dire da qualche parte che questi dannatissimi sogni vividi potevano essere un probabile segno premonitóre, una sorta di sintomo predittivo dell’eventuale insorgenza di una di quelle cacchio di malattie del cervello che avevano quei nomi così strambi, tipo: Morbo di Parkinson o… qualcosa del genere.
Roma, 25 luglio 2023
Gerardo Regnani
*Disclaimer
Anche il personaggio principale di questa storia immaginaria, battezzato con il nome "Pærson" (una combinazione di "Parkinson" e "persona"), è immaginario. Qualsiasi riferimento a cose, fatti, persone, contesti, situazioni, ecc., è puramente casuale e/o semplicemente frutto della mia fantasia, senza alcun riferimento esplicito alla realtà. Ciò che Pærson pensa e/o teme possa accadere a una persona affetta dalla Malattia (non "Morbo") di Parkinson non è invece immaginario, soprattutto negli esempi delineati.
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